85 anni che hanno condizionato il nostro modo di vivere: 1940-2025
Terza parte: 2000-2025
Mentre gli avvenimenti dei decenni di cui ho sinora parlato emergono da una nebulosa di ricordi rivisitati dall’esperienza accumulata nel corso degli anni, molti dei quali tra l’altro accaduti ai tempi di una generazione ormai purtroppo sempre meno numerosa, quelli che menziono in questa ultima parte escono sempre più dal campo del ricordo entrando in quell’o dell’attualità , attualità che le nuove generazioni hanno appena vissuto e stanno attualmente vivendo.
E man mano che più ci si avvicina all’oggi, l’esperienza e la rivisitazione cedono sempre più il passo al dubbio o alla soggettività del momento.
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2000-2010
E’ iniziata un’era nuova?
E’ arrivato il nuovo millennio. Il mondo non finisce – come i più catastrofisti avevano previsto – ma anzi rinasce, si spalanca. I computer non impazziscono per il millennium bug, le luci restano accese, sembra di essere entrati in un’era nuova, brillante, piena di promesse.
E per un po’ lo è davvero. Internet si diffonde in modo capillare. Non è più un privilegio di pochi nerd: ormai si naviga in casa, in ufficio, nei bar. Arrivano Google, Wikipedia, i primi blog. Le email diventano parte integrante della giornata, i telefoni cellulari si evolvono in modo rapidissimo. Il Nokia 3310 è ancora protagonista, ma già si intuisce che qualcosa di rivoluzionario si prepara sotto la superficie. Inizia l’era della connessione permanente, anche se ancora non la chiamiamo così.
Nel mondo, però, la realtà si incarica subito di smentire l’illusione di un progresso pacifico e continuo.
L’11 settembre 2001 cambia tutto. Quelle immagini, viste in diretta da milioni di persone, segnano una frattura profonda nella percezione collettiva della sicurezza. I due aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle diventano il simbolo di un nuovo tipo di terrore, globale e imprevedibile.
Inizia la “guerra al terrorismo”, con tutte le ambiguità e le contraddizioni che ci porteremo dietro per decenni: l’invasione dell’Afghanistan, poi quella dell’Iraq, le torture di Abu Ghraib, Guantanamo, le bombe nelle metropolitane di Madrid e Londra.
Anche in Italia l’effetto è forte. Torna la paura, quella che pensavamo di aver archiviato. Si ricomincia a parlare di sicurezza, di controlli, di confini. Ma nel frattempo, la vita continua nonostante che la Seconda Repubblica , che prometteva di rompere con il passato, eredita gran parte dei vizi della Prima: clientelismo, personalismi, giochi di palazzo.
In economia un nuovo termine prende il sopravvento : globalizzazione, all’inizio celebrata dai soliti corifei come la massima espressione di un commercio mondiale che avrebbe portato enormi benefici sia ai Paesi consumatori che a quelli produttori. E a questo termine se ne aggiunto un altro, veramente deleterio specie per l’Italia: delocalizzazione.
Sull’onda del successo del Made in Italy così brillantemente affermatisi nel decennio precedente, la maggior parte dei brand più famosi, poi seguiti dalla gran massa degli altri produttori, scoprono che andare a produrre in paesi dove il costo della manodopera era infinitesimo rispetto a quello italiano, iniziano una gara di delocalizzazione selvaggia.
Era una gara come sempre enfatizzata nella solita maniera dai media italiani: “ stiamo insegnando a tutto il mondo”, “ la testa qui e le braccia la’ “ e altre amenità del genere.Il risultato? Nel giro di pochi anni il settore manifatturiero italiano, uno dei pilastri della nostra economia, subisce una crisi epocale accentuata poi dall’improvvida entrata,senza alcun periodo di transizione, della Cina nel WTO.
Il mercato del lavoro va in affanno: per i giovani il “ posto in fabbrica”, aspirazione delle generazioni precedenti,incomincia a diventare una chimera
Nasce una generazione che viene definita “flessibile”, ma spesso si traduce in “precaria”. I call center diventano il simbolo di questa nuova condizione esistenziale: voci anonime, stipendi minimi, nessuna prospettiva.
I social iniziano a comparire timidamente: nel 2004 nasce Facebook, nel 2005 YouTube. All’inizio sembrano solo curiosità per studenti americani, ma in pochi anni diventeranno parte integrante delle nostre vite. Nessuno lo sa ancora, ma il mondo dell’informazione, della comunicazione e persino della politica sta per essere riscritto da capo.
Nel contempo prende sempre più corpo un problema completamente sottovaluto agli inizi: l’immigrazione.
Già nel decennio precedente c’era stata nel 1991 la fiammata dell’ immigrazione albanese ( chi non ricorda le iconiche immagini dello sbarco a Bari della nave Vlora?)
Ma è a partire dagli anni 2000 l’ immigrazione diventa visibile e percepita come fenomeno permanente,non più come episodio isolato, fenomeno che avrà ripercussioni per tutti gli anni successivi e attuale come non mai non solo in Italia ma in tutta Europa.
👤 Popolazione straniera residente in Italia
• 1990: circa 350.000 stranieri.
• 2000: oltre 1,3 milioni.
• 2010: circa 4,2 milioni.
• 2020: quasi 5,3 milioni (8,7% della popolazione totale).
Il decennio si chiude con un altro shock: la crisi finanziaria del 2008. Comincia negli Stati Uniti, con i mutui subprime e il fallimento della Lehman Brothers, ma in breve travolge l’intero pianeta. Le borse crollano, le banche tremano, iimilioni di persone perdono il lavoro. È il primo segnale concreto che il modello di crescita su cui avevamo fatto affidamento – rapido, globalizzato, iperliberista,non è affatto solido.
Per le persone come me, che hanno vissuto la loro giovinezza e maturità negli anni della seconda metà del Novecento, comprendere e sopratutto apprezzare il tipo di economia che ha portato allo shock del 2008 è estremamente difficile . Eravamo abituati a pensare che, similmente a quanto sempre avvenuto nella storia, l’attività economica fosse fondata su un basilare principio: si produce qualcosa, la si vende, si guadagna (o si perde). Il lavoro, la manifattura, la fatica dell’ingegno erano al centro del sistema. La finanza aveva un ruolo, ma era al servizio dell’economia reale.
Si assiste invece ad una nuova finanza sganciata dalla produzione, autoreferenziale, spesso incomprensibile, che inventa strumenti sintetici il cui unico scopo è generare profitti su altri profitti, senza creare valore tangibile. È una macchina che si alimenta da sola, sempre più veloce e sopratutto opaca, a beneficio di pochi e a detrimento di molti.
Dopo il grande spavento del 2008, ci si illudeva che le cose sarebbero cambiate, che la crisi avesse mostrato i limiti di questa grande bolla. E invece, passata la paura, tutto è ripreso come prima, anzi peggio: leve finanziarie più estreme, algoritmi più spregiudicati, rischi sistemici ancora più sottili e pericolosi.
Una conferma che il nuovo millennio, che si era preannunciato radioso,non avrebbe avuto niente di facile o di lineare.
Semmai ci stava dicendo che le certezze erano finite.
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2010-2020
Verso un nuovo cambiamento
All’inizio del nuovo decennio, dopo le grandi paure della crisi del 2008, ci si voleva convincere che il peggio fosse passato. I governi rassicuravano, le banche centrali abbassavano i tassi d’interesse e pompavano liquidità. I mercati finanziari riprendevano fiato e anche i titoli in borsa tornavano a correre. In Italia, si parlava di “ripresa”, ma era più uno slogan che una realtà. La produzione industriale non tornò mai più ai livelli pre-2008, molti posti di lavoro persi rimasero tali, e le nuove generazioni si affacciavano al mondo del lavoro con prospettive assai più deboli rispetto a quelle dei loro genitori.
L’Italia, come altri Paesi europei, subì nel 2011 il contraccolpo del “debito sovrano”, e per mesi si visse con la sensazione che tutto potesse crollare da un momento all’altro. Ricordiamo lo spread, la caduta di Berlusconi, Mario Monti, la “lettera della BCE”, le lacrime della Fornero. Poi venne la stagione del “quantitative easing” di Draghi che salvò l’euro, ma le ferite sociali erano già profonde.
Intanto, la società cambiava in modo sempre più radicale. Il mondo digitale, ormai padrone delle nostre vite, smise di essere una novità e divenne un habitat permanente. I social media, un tempo mezzi per condividere esperienze, cominciavano a polarizzare l’opinione pubblica, a creare bolle informative, a diffondere rabbia e disinformazione. Nasceva l’era della post-verità, delle fake news, delle guerre culturali online. I talk show si adeguavano: urla, slogan, superficialità, emozione al posto della competenza.
Sul piano internazionale, l’Occidente sembrava in difficoltà. Gli Stati Uniti eleggevano nel 2016 Donald Trump, in una delle più clamorose rotture dell’ordine liberale postbellico. Il Regno Unito votava per la Brexit. La Russia mostrava i muscoli in Crimea e Siria. La Cina, silenziosa ma determinata, proseguiva nella sua ascesa economica e tecnologica.
Per tutto il decennio la tragedia migranti diveniva di giorno in giorno più scioccante. Le nuove guerre in Medio Oriente generavano flussi di profughi che,in aggiunta a quelli “ tradizionali” provenienti dall’Africa, cercavano una difficile salvezza in Europa. Ed il Mediterraneo divenne un cimitero.
Infine,quando sembrava che tutto potesse almeno trovare un nuovo equilibrio, arrivò il virus. Il 2020 si chiuse con una parola che da decenni,se non secoli, l’Occidente non usava più: la paura del contagio. Il mondo si chiudeva, letteralmente. Si riscoprivano concetti che parevano superati: quarantena, lockdown, coprifuoco. Anche le certezze più elementari — scuola, lavoro, abbracci — vennero messe in pausa. La globalizzazione mostrava tutta la sua fragilità: bastava un virus partito da un mercato della Cina per mettere in ginocchio il mondo intero.
Eppure, nessuno ancora immaginava quanto tutto ciò avrebbe inciso anche sul decennio successivo.
2020-2025
Cosa ci riserva il futuro?
Ormai siamo all’attualità pura.
Niente ricordi, solo immagini ( e non certamente belle) che continuamente girano davanti ai nostri occhi.
Covid,Ucraina,Siria,Libano,Israele,Gaza,Trump,Iran,clima impazzito. Forse più cose negative in questi 5 anni che in tantissimi precedenti.
E allora?
Forse non ci rimane che ricordare che la vita della società umana è sempre stata segnata da corsi e ricorsi storici e che la saggezza popolare, spesso molto più valida di tante teorie scientifiche, ci dice che “dopo il brutto viene il bello”. Sembra banale, ma è un messaggio di speranza molto significativo.
Conclusione
Ho voluto scrivere queste note perché ritengo che il periodo che ho avuto la fortuna di vivere sia, per profondità e rapidità dei cambiamenti, paragonabile – se non superiore – a quello della Rivoluzione industriale dell’Ottocento.
In pochi decenni sono stati stravolti abitudini, mentalità, stili di vita. Un cambiamento radicale avvenuto in un tempo brevissimo, che però rischia di essere frainteso o addirittura ignorato dalle nuove – e soprattutto nuovissime – generazioni.
Sommersi da una valanga di informazioni, spesso caotica e superficiale, molti finiscono per interpretare la realtà esclusivamente attraverso il presente, senza rendersi conto di quanta strada sia stata percorsa in soli ottant’anni. Una strada che ci ha portati – pur con tutti i limiti ancora da superare – a livelli di benessere, conoscenza e civiltà che in passato erano impensabili.
Mi piace immaginare questo cammino come una lunga salita in bicicletta. Chi è nel pieno dello sforzo può lasciarsi andare alla fatica e alle imprecazioni. Ma se ha la saggezza di voltarsi un attimo indietro e guardare i tornanti percorsi, il dislivello superato, può ritrovare fiato e coraggio. E, con sguardo fiero e consapevole,riprendere la pedalata verso la cima.
Diversamente da chi, scoraggiato e arrabbiato con tutto e tutti, decide di tornare indietro per cercare una via più semplice, solo per scoprire – troppo tardi – che anche quella è piena degli stessi ostacoli.
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Alfredo