Come impariamo a pensare: la nascita della conoscenza e delle opinioni
Tutti pensano,ma pochi si chiedono da dove arriva quello che pensano.
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Come impariamo a pensare: la nascita della conoscenza e delle opinioni
Una prima domanda.
C’è una domanda che quasi nessuno si fa, nonostante sia probabilmente una delle più importanti: come faccio a sapere quello che so?
Non si intende soltanto la nozione imparata a scuola o la notizia letta stamattina, ma tutto: le idee che abbiamo sul mondo, i valori in cui crediamo, persino le sensazioni che proviamo davanti a un certo fatto o a un certo volto.
Viviamo immersi nelle nostre convinzioni come pesci nell’acqua, senza accorgerci di nuotarci dentro. Ma prima o poi, chi si ferma a riflettere, inizia a intravedere qualcosa: che quelle convinzioni non sono spuntate dal nulla, e nemmeno sono tutte frutto di libera scelta.
L’infanzia: Il primo mondo è quello degli altri.
Nei primi anni della nostra vita, il sapere non è una conquista ma un dono o, se si vuole, una forzatura gentile.
Impariamo a parlare copiando, assorbendo significati che non scegliamo. Impariamo a comportarci come si comportano gli adulti, a distinguere ciò che è “giusto” da ciò che è “sbagliato” in base ai sorrisi o agli sguardi severi.
Non ci viene spiegato perché qualcosa sia buono o cattivo: ci viene detto che lo è. Il mondo ci viene consegnato come un insieme già ordinato.
E noi, fiduciosi, lo prendiamo così com’è. È l’età dell’autorità: mamma, papà, la maestra, i nonni — sono loro il primo filtro della realtà. E anche quando cresciamo, quel filtro resta più a lungo di quanto ci piaccia credere.
La scuola: tra sapere e selezione
Poi arriva la scuola, che ha il compito dichiarato di insegnarci a conoscere.
In parte è vero. Ma in realtà la scuola trasmette più facilmente risposte che domande. Ci dice cosa è successo, chi l’ha fatto, quanto fa 7x8, dove si trova la Mongolia. Meno spesso ci dice perché certe cose sono importanti, chi ha deciso che siano vere, quali altre interpretazioni esistano.
In più, la scuola valuta. Premia la correttezza, penalizza l’errore. Questo crea presto un’idea implicita: sapere significa dare la risposta giusta. Pensare, in fondo, è ricordare bene.
E così si interiorizza il modello di una conoscenza statica, che si riceve dall’alto, e che serve ad adattarsi meglio a un mondo già definito.
L’adolescenza: le prime crepe nel muro
Poi, un bel giorno, qualcosa si rompe.
L’adolescenza è il momento delle domande insolenti, dei confronti duri, delle passioni improvvise. Si scopre che esistono altri modi di pensare, altri stili di vita, altre storie.
La famiglia non è più l’unico riferimento. Entrano in scena gli amici, i video online, le canzoni, i libri, i meme, i personagg
i pubblici. Ognuno porta con sé un frammento di mondo diverso.
E inizia il bisogno, fortissimo, di sentirsi diversi: dalla famiglia, dalla massa, da quello che ci è stato detto finora.
Ma anche qui c’è un paradosso: spesso il desiderio di originalità si appoggia su nuovi conformismi. Si sceglie un’idea perché è controcorrente, perché è popolare nel gruppo, perché fa sentire “svegli” rispetto ai “dormienti”.
La spinta a formarsi opinioni personali è reale, ma è ancora fragile. E facilmente, si finisce per passare da una gabbia all’altra.
L’età adulta: opinioni come appartenenze
A un certo punto, il tempo delle esplorazioni rallenta. Si entra nel mondo del lavoro, della responsabilità, dei ruoli.
Ed è qui che molte opinioni si cristallizzano. Non perché si sia riflettuto fino in fondo su ogni cosa, ma perché, semplicemente, non c’è più tempo (o voglia) di metterle in discussione.
Le convinzioni diventano parte della nostra identità. Dire “sono di sinistra”, “sono liberale”, “credo nella scienza”, “sono contro il sistema” significa spesso dire: sono fatto così, e non voglio rimettermi in discussione.
Le opinioni diventano bandiere da sventolare, etichette da esibire, strumenti per decidere da che parte stare. Non importa se abbiamo davvero letto, approfondito, messo in discussione: l’importante è avere una posizione.
E qui accade qualcosa di curioso, ma diffusissimo: cerchiamo conferme.
Continuiamo a leggere il giornale che più si adatta ai nostri convincimenti, analogamente a quanto facciamo con le notizie televisive,ignorando o disprezzando tutte le altre fonti. Se ci convinciamo che “i media mentono”, allora ci tuffiamo su fonti alternative che confermino il nostro scetticismo.
Ogni tanto, magari, incontriamo un’idea diversa. Ma ci dà fastidio. La consideriamo stupida, in malafede, o addirittura pericolosa.
Non vogliamo cambiare idea. Vogliamo solo rafforzare quella che abbiamo.
E così, con il tempo, il nostro modo di pensare si irrigidisce. Diventa una struttura fissa, che filtra tutto quello che arriva. Non vediamo più la realtà: vediamo la versione della realtà che si adatta meglio alle nostre convinzioni.
Conoscenza e opinione: due cose diverse
A questo punto, vale la pena fermarsi un attimo e fare una distinzione fondamentale: conoscenza e opinione non sono la stessa cosa.
Eppure, nel linguaggio quotidiano, spesso si confondono.
Dire “secondo me è così” viene scambiato per un atto di conoscenza. Ma non lo è. È un atto di posizione. Un modo per segnalare dove siamo schierati, non cosa sappiamo davvero.
La conoscenza è, per sua natura, instabile. È sempre esposta alla possibilità di essere superata, aggiornata, contraddetta.
Chi conosce davvero qualcosa — un tema storico, una teoria scientifica, un problema sociale — sa bene quanto sia fragile e provvisoria ogni verità. La conoscenza richiede metodo, confronto, verifica, apertura.
L’opinione invece è molto più comoda. Non pretende verifiche, non accetta confutazioni, si nutre di sensazioni e preferenze. È più leggera da portare e più facile da difendere. Ma proprio per questo, è anche più pericolosa quando si finge conoscenza.
E così, molte persone finiscono per vivere in un territorio intermedio, dove credere qualcosa diventa equivalente al sapere.
Ma questa illusione, in fondo, ci indebolisce. Perché se tutto è opinione, allora tutto vale. E se tutto vale, niente ha più senso davvero.
Il pensiero critico come pratica, non come posa
Si parla spesso — a scuola, sui social, nei talk show — di “pensiero critico”.
Ma spesso il termine viene usato in modo retorico, come fosse un marchio di intelligenza o indipendenza. In realtà, il pensiero critico è molto più difficile di quanto sembri.
Non è solo pensare “diverso dagli altri”. È pensare “in maniera migliore”:più a fondo, più lentamente, più consapevolmente.
È saper riconoscere i propri limiti, i propri pregiudizi, la parzialità delle proprie fonti. È allenarsi a dire: “Non lo so”, “Potrei sbagliarmi”, “Voglio capire di più”.
È avere il coraggio di leggere anche ciò che dà fastidio, di ascoltare chi ha opinioni opposte, non per dargli ragione, ma per capire dove si è formato quell’altro punto di vista.
È accettare che cambiare idea non è un segno di debolezza, ma un esercizio di onestà intellettuale.
Quindi?
Siamo partiti da una domanda semplice: come faccio a sapere quello che so?
E forse, dopo questo percorso, la risposta non è più così ovvia.
Non sappiamo solo ciò che abbiamo scelto di sapere. Sappiamo anche — e forse soprattutto — ciò che abbiamo ereditato, imitato, assorbito quasi senza accorgercene.
Le nostre opinioni non sono sempre frutto di libertà, ma spesso di abitudine, paura, bisogno di appartenenza.
Questo non significa che dobbiamo vivere nel dubbio perenne. Ma forse dovremmo imparare a convivere con l’idea che ogni convinzione, per quanto solida, può essere rivista.
Che conoscere davvero qualcosa richiede tempo, pazienza, e una buona dose di umiltà.
E che la vera maturità non sta nel dire “ho la mia opinione”, ma nel saper dire, ogni tanto: “Sto cercando di capire”.
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Mentre ti ringrazio per aver avuto la pazienza di leggere questa newsletter, posso chiedere anche a te una opinione in merito?
Scrivilo nei nei commenti oppure condividi questo articolo con chi, secondo te, ha ancora voglia di pensare davvero.
Spero di leggerti
Alfredo
Una riflessione molto
interessante come sempre scritta con garbo. Mille mille grazie Alfredo
concordo perfettamente con quest'analisi . La vita è un percorso con numerosi cartelli indicatori, cartelli di obbligo, di divieto, di incontri che ti danno indicazioni. La cosa migliore sarebbe che tu metti nel cassetto della mente tutte queste indicazioni e le rielabori per gestire la conoscenza ed elaborare una tua opinione