L’Europa come l’Italia del Quattrocento
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Un impressionante parallelismo tra l’Italia della fine del Quattrocento e l’attuale situazione europea
Nel mio post “L’uomo e la storia” del 24 aprile avevo già messo in evidenza come, sin dall’antichità, le vicende umane non siano che un continuo ripetersi delle stesse dinamiche e degli stessi meccanismi, anche in un contesto in continua evoluzione come quello sociale e tecnologico.
È forse l’unico ambito in cui l’esperienza passata non insegna nulla: si continua a ripartire sempre dagli stessi punti, come se, ad ogni cambio generazionale, si dovessero reinventare i numeri o la ruota, senza utilizzare il patrimonio di conoscenze precedenti per progredire verso traguardi più avanzati.
Un esempio significativo è l’impressionante parallelismo tra l’Italia della fine del Quattrocento e l’attuale situazione europea.
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L’Italia della seconda metà del XV secolo
Il territorio degli Stati della penisola italiana, specie nella sua parte centro-settentrionale, rappresentava all’epoca — insieme a una parte relativamente ristretta dell’Europa centro-occidentale (Borgogna, Fiandre) — la zona più ricca e prospera del continente.
Agricoltura, commercio, industria e una florida attività finanziaria avevano garantito uno dei più alti tenori di vita dell’epoca, favorendo un ineguagliato fiorire delle arti: pittura, scultura, architettura e cultura in generale.
Questo benessere contribuì inevitabilmente a spostare gli interessi della popolazione verso le attività più remunerative o socialmente prestigiose, con un conseguente progressivo disinteresse per la difesa attiva del territorio.
Una situazione ben diversa da quella dei due secoli precedenti e che portò a un crescente ricorso alle milizie mercenarie, forze armate spesso poco affidabili e scarsamente motivate, inadatte a sostenere una solida struttura difensiva.
I reggitori delle potenze regionali, in continua competizione tra loro e protagonisti di frequenti cambi di alleanze, si affidavano soprattutto alla diplomazia — con tutte le sottigliezze, spesso subdole, che da sempre la contraddistinguono — e a guerre locali, in genere brevi e dai limitati effetti sull’economia generale.
Quel che accadeva al di fuori della penisola era, salvo rare eccezioni (come la Repubblica di Venezia, proiettata verso l’Adriatico e il Vicino Oriente), ampiamente ignorato. I rapporti con l’estero si basavano quasi esclusivamente su legami matrimoniali tra casati.
Fu in questo contesto, individualista e utilitaristico, che Ludovico il Moro, duca di Milano, chiedendo l’intervento del re di Francia per i suoi obiettivi dinastici contro il Regno di Napoli, permise a un esercito non mercenario, ma al diretto servizio del sovrano di uno Stato temprato da secoli di guerre con l’Inghilterra, di penetrare nella penisola.
Le truppe francesi di Carlo VIII, constatata la debolezza militare italiana, si imposero con una studiata violenza ed efferatezza che terrorizzò una popolazione ormai da tempo non più avvezza alle atrocità della vera guerra. Anche se non riuscirono a conquistare stabilmente il Regno di Napoli, al loro ritorno in patria resero noto a tutta Europa le ricchezze viste in Italia e la assoluta debolezza politica e militare ivi trovata
Così iniziò il lungo periodo delle invasioni straniere che, per tre secoli, trasformarono l’Italia in un campo di battaglia, riducendo una delle regioni più ricche del continente a terra di miseria, in cui pochi potenti,asserviti a turno allo straniero dominante,formavano la casta privilegiata.
Ne pagarono il prezzo non solo le plebi rurali ma anche,in modo particolare in Lombardia, il ceto degli artigiani e dei commercianti, praticamente annientato con conseguenze sociali ed economiche devastanti.
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L’Europa di oggi
Se ora, come in una mappa di Google, allarghiamo il campo visivo, ci troviamo di fronte a una situazione in cui è cambiata solo la scala delle dimensioni mentre per tutto il resto sembra quasi di vedere un copia-incolla del quadro di 500 anni fa:
al posto dell’Italia di allora, un’Europa ricca di abitanti, risorse economiche e intellettuali, di un benessere senza precedenti nella sua storia millenaria, ma politicamente frammentata, divisa da atavici pregiudizi e secolari campanilismi.
Un coacervo di nazioni che, dopo le terribili esperienze di due guerre mondiali, hanno tentato un’unione basata esclusivamente su interessi economici. Un’unione sancita solamente da trattati, tra l’altro causa di continue discordie e compromessi, a seconda dell’ umore questa volta non più del Duca di turno ma del momento politico dei singoli Stati.
È cambiata la forma, non la sostanza.
Pertanto nell’attuale Europa una effettiva unione politica — e quindi anche militare — non è mai stata raggiunta. I veti incrociati e le strutture istituzionali esistenti hanno impedito perfino i più timidi tentativi in tal senso.
Il risultato? Se un tempo erano gli Stati italiani a essere schiacciati e poi dominati dalle potenze confinanti, oggi è l’intera Europa a essere stritolata tra i due grandi blocchi di USA e Russia, con interventi — per ora sporadici — della Cina.
Nonostante questi rischi siano percepiti e ampiamente discussi, le rivalità nazionali ed economiche tra i membri dell’Unione, aggravate da un allargamento dissennato a Paesi profondamente diversi per storia, cultura ed economia, impediscono e continueranno a impedire la formazione di un vero Stato federale, con la conseguenza che resterà irraggiungibile una politica estera comune e, soprattutto, una concreta ed efficace capacità di deterrenza militare.
Purtroppo, come ai tempi della Francia e della Spagna nei confronti degli stati italiani del ‘400, le superpotenze attuali sono ben consapevoli di questa intrinseca debolezza europea e si comportano e continueranno a comportarsi di conseguenza.
Possiamo dar loro torto?
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P.S. Forse dovremmo guardarci indietro non per nostalgia, ma per prendere finalmente sul serio la lezione che abbiamo ignorato per cinquecento anni.
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Alfredo